Pier Francesco Zarcone, Martin Buber e l'anarchismo, studi Interculturali 2, 2014
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Pier Francesco Zarcone: Martin Buber e l’anarchismo – pdf gratuito

Pier Francesco Zarcone: Martin Buber e l’anarchismo

Studi Interculturali, 2/2014, n. 5

L’accostamento fra Martin Buber – filosofo di grande spiritualità e fortemente inserito nella religiosità ebraica – e l’anarchismo non è frutto di fantasia o di forzatura, bensì emerge dalla sua stessa opera, e nel presente scritto si cerca di chiarire le ragioni di questo apparente ossimoro. Nella prima parte, per chiarezza, viene tracciato un sintetico quadro della complessità dell’anarchismo – oggi ridotto a realtà insignificante, con un ruolo solo testimoniale di un passato anche glorioso, ma ormai privo di incisiva presenza nelle lotte sociali e politiche; nella seconda parte vengono trattate le componenti anarchiche (non di matrice ebraica) a cui si deve la fusione fra spirito libertario e vita religiosa; la terza, è dedicata all’ineludibile tema dei nessi fra Ebraismo e anarchismo; e infine si affronta in modo specifico il pensiero libertario di Martin Buber.

Preliminarmente è necessario bandire in modo assoluto l’identificazione dell’anarchia con il caos – ormai divenuta luogo comune, se non addirittura dogma, anche fra le persone di media cultura. La ragion d’essere dell’anarchismo, infatti, è l’approdo a un ordine naturale senza coazione dall’alto. Conseguentemente va del pari considerato frutto della propaganda avversa il fatto di considerare asociale o privo di senso etico l’anarchico in quanto tale.

Un approccio sintetico e critico all’anarchismo

A motivo della complessità del pensiero definibile anarchico la cosa migliore sarebbe non dare una definizione di anarchismo. La stessa semantica del nome non aiuta affatto. «Anarchia» viene dal greco ed è parola composta da un α privativo e dalla radice αρχ- (arch), indicante comando; e infatti la troviamo nel verbo archiin[1] comandare – ragion per cui generalmente la si traduce con «senza-comando», «senza-potere», «senza-autorità»; ma poiché la parola archí significa anche «principio» oppure «origine», anarchia finisce col significare «senza principio», «senza divinità», «senza dogmi». E l’anarchismo è il versante ideologico-programmatico-operativo con cui si vuole esprimere questi concetti. In senso politico fu usato per la prima volta, e negativamente, nel 1793 dal girondino Jacques Pierre Brissot per designare la corrente degli Arrabbiati, rivoluzionari radicali pronti alla critica di ogni d’autorità. Poi, nel 1840, Proudhon dette un significato positivo ad Anarchia e anarchismo.

I dati semantici sopra esposti, come si diceva, non fanno capire molto, anzi possono legittimare tutte le critiche di parte avversa, giacché se ne può anche ricavare il significato di mancanza di organizzazione, in assenza di comando e potere, cioè di un principio direttivo. Da qui il problema di come sia possibile la gestione di società quand’anche minimamente complesse, per non parlare di quelle contemporanee che sono ultracomplesse. Quando poi si va a guardare alla storia dell’anarchismo si scopre quanto segue: nel secolo XX gli anarchici hanno partecipato attivamente a tre rivoluzioni, la messicana, la russa in Ucraina, e la spagnola, e in nessuno di questi casi erano privi di un’organizzazione né si sono astenuti dal praticare la coazione verso i nemici di classe (anzi, ne erano il terrore in senso proprio). Si dirà che una situazione rivoluzionaria è del tutto particolare, per non dire eccezionale, e che quindi il problema di fondo resta.

A questo punto fermiamoci un attimo e vediamo di tracciare le linee fondamentali dell’anarchismo. Il mondo anarchico è definibile una galassia, giacché al suo interno esistono varie correnti di pensiero e di azione non tutte collimanti; anzi fra esse le differenze e i contrasti esistono e sono accesi. Agli estremi abbiamo individualismo esasperato – a volte nichilista, e comunque più esistenziale o letterario che politico – e collettivismo spinto. Fra questi antipodi si trovano varie opzioni di rilievo politico: anti-organizzativismo (più vicino all’individualismo), anarco-comunismo (detto anche, nei paesi ispano-portoghesi, comunismo libertario), anarcosindacalismo, anarco-insurrezionalismo, anarco-pacifismo, anarco-ecologismo, ecc.

Sotto vari aspetti l’anarchismo si propone come la continuazione e la correzione della Rivoluzione francese, nel senso di propugnare – dopo la conquista dell’uguaglianza politica – una vera eguaglianza sociale ed economica; il che si traduce in lotta senza compromessi contro il capitalismo e per l’abolizione del lavoro salariato. Ma nella galassia anarchica c’è tutto e il contrario di tutto; e così ci si imbatte anche, con matrice anglosassone, in un settore anarco-capitalista, che esalta il diritto di proprietà privata (quale diritto naturale assoluto) e il libero scambio, pur affermando – insieme a tutti gli altri anarchici – la non necessità dello Stato per una società liberata e libertaria. L’anarco-capitalismo non si identifica, ma neppure è in contrasto, con le posizioni dell’ottocentesco individualismo dello statunitense Benjamin Tucker, sostenitore di un’uguaglianza sociale realizzata mediante il mercato libero inteso come redistributore delle risorse; in teoria il suo vagheggiato mercato libero eliminati gli impulsi egoistici sarebbe sfuggito alle distorsioni.

Alla luce di tutto ciò, è evidente che l’anarchismo non si traduce in un corpo ideologico specifico. Sarebbe meglio considerarlo un ambito generico al cui interno poi ciascuno effettua le proprie opzioni, teoricamente senza imporle agli altri, ma limitandosi a propagandarle col pensiero e l’azione, gettando così dei semi nella società a cui spetta poi di sceglierli e farli fruttificare. Infatti, l’imposizione di una delle opzioni esistenti in nome dell’anarchia non sarebbe cosa anarchica. Prima abbiamo usato l’avverbio “teoricamente” poiché all’atto pratico questo non succede: basti pensare alla lotta accanita condotta dal resto della galassia anarchica contro i settori anarco-comunisti e anarco-sindacalisti per tagliare a essi l’erba sotto i piedi, non senza ricorrere a colpi bassi e scorrettezze varie. Anche gli anarchici sono esseri umani, cosicché non ci si deve aspettare che alla teoria corrisponda la prassi sempre e totalmente.

Per quanto al suo interno il contesto anarchico sia più che variegato l’obiettivo finale resta la nascita di una società di liberi e uguali sul piano dei diritti liberata dalla presenza dello Stato (organismo sovraordinato alla società stessa). Libertà ed eguaglianza sono gli assi portanti. Essi, però, sono interpretabili, e qui ricominciano le divergenze. Le maggiori riguardano da un lato gli anarco-comunisti e gli anarco-sindacalisti che coniugano la libertà con l’uguaglianza economica e sociale difendendo il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione, e dall’altro lato i sostenitori del libero mercato e gli anarco-capitalisti, per i quali le naturali differenze fra gli individui rendono impossibile questo obiettivo visto come lesivo dei diritti individuali. Ma, come già aveva sostenuto Bakunin in polemica con Marx, la libertà senza uguaglianza è una malsana finzione, e l’uguaglianza senza libertà è dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico per esistere deve avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata, la quale se non viene incarnata dai capitalisti lo è dalla burocrazia

Circa la libertà – a differenza dell’impostazione liberale che vede finire la libertà personale laddove comincia quella di un altro – per gli anarchici invece la libertà dell’individuo non viene limitata bensì confermata dalla libertà altrui. Da qui l’interesse del singolo a che siano aumentati gli spazi di libertà degli altri. La libertà porta ad affermare il principio dell’autogestione, per il singolo come per le collettività. Ma la libertà non è conseguibile all’interno dello Stato e delle altre istituzioni basate sul dominio dall’alto.

A parte gli individualisti, in merito all’organizzazione sociale gli anarchici propongono il federalismo, nel senso che la gestione degli affari collettivi avverrebbe direttamente da parte di liberi organismi federati. Nelle imprese l’autogestione consentirebbe di sostituire il lavoro salariato con il lavoro associato; e le federazioni dei produttori, delle comuni, delle regioni permetterebbero di fare a meno dello Stato come ente sovraordinato alla società. Alla base di tale assetto organizzativo sta il contratto, volontario e modificabile da parte dei contraenti (associazioni dei produttori, dei consumatori, singoli ecc.). Nel contratto federativo sono da indicare diritti e doveri singoli e collettivi, regolamentando anche gli inevitabili conflitti, ma senza rimettere in discussione l’autonomia dei membri della società.

L’anarchismo come fenomeno politico e ideologico nasce nel secolo XIX, ma non con Proudhon, bensì con Mikhail Bakunin e i suoi seguaci; e nasce come comunismo libertario, cioè in un’ottica di forte socialità da conciliare con l’autodeterminazione della persona, e quindi con la libertà nella società. Carlo Cafiero (collaboratore di Bakunin) si definì, «anarchico perché comunista e comunista perché anarchico». Considerare anarchici il settecentesco Godwin o l’ottocentesco Stirner è fuori luogo: in qualche modo il primo è da porre in uno spazio anteriore all’anarchismo, e il secondo rientra nella sfera dell’individualismo asociale e amorale.

L’influenza generale dell’Ottocento europeo è facilmente riscontrabile nei testi classici dell’anarchismo, e si esprime in un ottimismo antropologico di fondo, tipico di quei tempi antecedenti alla grande rivoluzione scientifica a cavallo fra secolo XIX e XX, con particolare riguardo alla psicologia e alla psicanalisi. Comunque era rimasta ignorata la lectio del settecentesco Etienne de la Boetie sull’oscura pulsione alla servitù volontaria esistente nell’animo umano. In linea di massima questa caratteristica persiste, per quanto sia le esperienze storiche del secolo passato, sia le moderne acquisizioni delle c.d. «scienze umane» avrebbero dovuto portare a una revisione profonda di molte ottimistiche certezze del pensiero anarchico «classico», bandendo schematismi astratti che privilegiano automatismi e semplificazioni. Ad esempio, il Programma degli Anarchici del 1920, e molti scritti di Errico Malatesta, tracciano il quadro di una rivoluzione che abbatte «in tempo reale» il tiranno/Stato e pone le basi di una società libertaria che poi si difende con una certa «facilità» o «disinvoltura» dai dissidenti e nostalgici del passato regime. Nella realtà si sono avuti il leninismo/stalinismo, il fascismo, il nazismo, la tragica esperienza della Spagna, l’espansione internazionale del dominio delle mafie e delle multinazionali, il capitalismo globalizzato, l’impero Usa, il radicalismo islamico ecc.; tutti fenomeni di fronte a cui l’anarchismo si è trovato impotente, continuando a cozzare con le realtà sociali, politiche ed economiche circostanti. [continua a leggere]

[1] La traslitterazione è effettuata secondo i canoni della pronuncia bizantina, ancora in uso nei paesi di lingua greca, e non secondo l’opinabile pronuncia codificata da Erasmo da Rotterdam, in uso nelle scuole italiane.