BUONE LETTURE

Fatti e misfatti di un vecchio sciamano impostore

Lo Sciamano e il pensatore e altri scritti coevi

«Se il divino, paradossalmente, si rivela attraverso il mondo, quest’ultimo può esser vi-sto secondo due diverse prospettive: a) ciò che le cose sono fisicamente; b) ciò che esse si-gnificano in quanto ierofanie. L’uomo arcaico si è occupato della seconda prospettiva. Se la divinità può manifestarsi attraverso il mondo sensibile, questo, allora, non può essere radicalmente altro dalla divinità. Come minimo è necessario che esso sia assoggettato al potere del divino. più specificamente, nella mentalità arcaica e mitica, il mondo «è», formal-mente, un potere del divino. Così l’uomo non si preoccupa di ciò che l’oggetto è secondo la prospettiva scientifico-razionale, non perché non abbia le capacità intellettuali per porsi tali problemi, ma perché sa già che cosa l’oggetto è in ultima analisi: è un potere del divino. Il significato dell’universo si racchiude nel fatto che esso, ontologicamente, è espressione di una realtà trascendente e illimitata, che però, in un certo senso, si autolimita nelle cose, per manifestarsi attraverso di esse, senza che la sua trascendenza venga meno. Ciò dà all’universo una struttura intima, che è cosmos, alla vita un significato interiore, che è rito, pur dentro l’ambito della concreta libertà umana.»

Parmenide e la capra (Arkhé 2)

Parmenide e la capra è un breve trattato, molto “orientale”, sull’alchimia del sentire e sulla critica dell’idea dell’essere. Si tratta di due aspetti connessi al tema dell’Arkhé, dell’«origine», intesa sia nel senso greco del momento iniziale del divenire della realtà, sia come radice attuale del dinamismo del reale: il reale è attivo per se stesso in virtù del suo potere, da cui emana come da una sorgente perenne. Questa sorgente inesauribile è il potere del divino in attività, che produce e regge l’universo. Interno al reale, come un frammento di esso, lo sguardo dell’individuo non può andare oltre l’osservazione dell’effetto del potere in attività (la “natura naturans”, nell’espressione della scolastica medievale), non può cioè costruire una filosofia che sia davvero meta-fisica; può, però, demolendo l’illusorio concetto di “essere”, percepire la natura come una totalità organica e vivente con la quale è in comunicazione. Tra la persona e la realtà non c’è né un legame logico, né un distanziamento insuperabile, né una confusione panteista, bensì una comunicazione vitale che, nel sentire personale, pur tra mille voci a volte contraddittorie e ambigue, lascia trasparire un’eco della voce divina. Nel mondo troviamo tante realtà diverse, e di tutte predichiamo l’entità, operando già una separazione concettuale tra l’entità, che è unica, e le cose singole, che sono tante, molteplici, diverse, irriducibili tra loro. Quando parliamo dell’albero come di un ente, abbiamo già astratto dall’albero (che è concreto, produce mele, secca e diventa legna da ardere) qualcosa che non è albero ma: «albero a prescindere da tutte le sue caratteristiche eccetto l’esistenza». Il concetto di ente contiene già la teoria dell’essere. Però non spiega come sia possibile prescindere da tutte le caratteristiche dell’albero tranne una: quando operiamo questa astrazione, non parliamo di alberi reali, prescindiamo completamente dall’intero mondo della nostra esperienza e parliamo di un albero che non abbiamo mai percepito con i sensi. La complessa realtà dell’albero viene separata dal suo puro essere qui – un albero che non esiste e di cui dimostriamo l’esistenza con il ragionamento. Esser-qui, di che? Non l’esser-qui di una cosa reale, ma un esser-qui indeterminato e senza cose: un fantasma. Ente viene da ens, traduzione latina del greco on, participio presente del verbo essere in una strana forma neutra. Vuol dire essente, ed è tratto da una situazione reale. Significa che dinanzi agli occhi di Parmenide seduto su una panca c’è la capra, l’erba che la capra sta brucando, poco più in là c’è Zenone, vicino la brocca del vino, e da qualche parte un ruscello di cui si sente lo scorrere dell’acqua. Tutte queste cose sono qui, presentemente, ma ciascuna così come è: la capra come capra, e andrà al ruscello a bere; Parmenide come Parmenide, Zenone come Zenone, ed entrambi bevono il vino. Ognuna di queste realtà ha la sua consistenza. Si ipotizza che queste consistenze diverse siano modi di una consistenza unica, indifferenziata, di una consistenza in sé; cioè che primariamente le cose consistano nel consistere e che la loro differenziazione non sia la condizione costitutiva, irrinunciabile, ultima di ogni consistere concreto. Si ipotizza che esser-Parmenide ed esser-capra implichino un essere-senza-attributi, senza ciò che lo rende ora Parmenide ed ora capra. Questa appunto l’ipotesi da demolire.

Vie del sapere tra Oriente e Occidente (Arkhé 3)

L’apparente forza logica dell’idea secondo cui l’essere è, e non può non essere (questa è la sostanza del discorso, anche se la formula usata da Parmenide è un po’ più complessa), cade osservando che il termine che traduciamo con essereto on, viene usato nel significato linguistico che gli appartiene secondo la grammatica greca, ma dopo che lo si è tolto dalle condizioni che lo rendono significante nella lingua reale. Nella lingua reale diciamo che una cosa “è”, in quanto abbiamo visto le sue caratteristiche, il suo aspetto, e dunque ci appare… essere un asino, una capra, una botte, una persona. Insomma usiamo il verbo essere in costante riferimento a un soggetto, un luogo, un tempo: a qualcosa di determinato.
Proprio perché ci sono queste determinazioni il verbo essere ha un significato comprensibile. Siccome davanti a me “c’è” un oggetto che possiede le determinazioni e le caratteristiche della capra, si capisce che cosa dico quando uso la frase: questa “è” la capra. Ma se non c’è la capra, non posso usare il verbo essere. Se qualcuno mi dice che c’è qualcosa che non ha alcuna determinazione, ma che possiamo chiamare essere, allora deve presentarmi questa cosa, perché io non l’ho mai vista e non credo che esista. Di qualcosa che al tempo stesso sia, ma non abbia determinazioni, non abbiamo alcuna esperienza. È vero che c’è l’albero e c’è la capra, ma è ipotetico che l’essere-albero e l’essere-capra implichino un essere-né-albero-né-capra, e tuttavia continuando a essere con effettività di realtà: non c’è esperienza di questo. Astrarre un essere comune dalle frasi (effettivamente significanti): “questa è la capra”, “questa è la brocca”, equivale ad astrarre la parola che hanno in comune (“è”), pretendendo che possa conservare il suo significato. Come dimostrazione vale quanto astrarre dalle due frasi l’articolo “la” e pretendere che sia la radice dell’intero universo.
Lao-tze, il maestro a cui viene attribuito il Tao-tê-ching, non c’era cascato. Se qualcosa ha un nome e/o una forma, vuol dire che si colloca all’interno del processo della generazione, o divenire: è nato da qualcos’altro. Se si cerca l’origine dell’intero processo del divenire mondano, cioè del complesso delle cose che hanno nome e forma, bisogna vederla non in qualcosa che è già differenziato e individuato (=è uno degli esseri), ma in un principio formatore e, pertanto, pre-formale, al quale non possiamo applicare alcun nome di quelli che usiamo per distinguere e denominare gli esseri mondani. Per quanto pesi a Parmenide, ciò che “è” può derivare solo dal non essere.

Physis: l’origine e le differenze (Arkhé 4)

D’altro canto, non ci si può neppure illudere circa l’esisten-za di un soggetto: soggetto e oggetto sono astrazioni che si creano contestualmente: ciò che oggettivizza il mondo è il punto di vista intellettuale che, immediatamente, rivendica per sé la qualità di soggetto. Ma come l’oggetto è distante dal mondo reale, altrettanto lo è il soggetto dalla persona concretamente vivente: soggetto e oggetto sono separati tra loro e distanti dalla realtà, o meglio, sono reali nella particolare forma della simulazione: simuliamo che la persona sia un punto di vista ideale, capace di abbracciare simultaneamente tutti i punti di vista possibili, e questo produce una simulazione di realtà, come in una carta geografica: è ovvio che questo sia utilissimo e forse imprescindibile, ma il mondo vero resta fuori dallo schema che lo rappresenta.

Giorgio Colli: la sapienza folgorante

Apollo e Dioniso, dunque, coincidono in quanto conducono all’estasi. Poi si pone un problema successivo: manifestare e comunicare la sapienza. È un problema di espressione: da un lato usiamo parole che hanno già un significato quotidiano e consolidato nell’uso corrente, dall’altro dobbiamo esprimere attraverso queste parole standardizzate qualcosa che si lega a un’esperienza inconsueta ed eccezionale. Allora, le parole abituali, che per il loro uso corrente richiamano oggetti dell’esperienza quotidiana, risultano equivoche e fuorvianti. Di conseguenza, se occorre esprimersi con parole, sarà necessario fare in modo che esse non abbiano un senso immediato e rapportabile alla loro quotidianità; si ha bisogno di un uso diverso, che obblighi l’ascoltatore ad abbandonare il pregiudizio di conoscere già l’intero significato dei termini impiegati. Da qui l’espressione basata sul paradosso, sull’enigma, l’apparente incomprensibilità che richiede la mediazione di un interprete.

In vino veritas…: Dionisismo e fine della filosofia in Ortega y Gasset

Negli ultimi quindici anni circa della sua attività, José Ortega y Gasset ha cercato una filosofia che non solo fosse nuova rispetto alle precedenti, come spera ogni filosofo di razza, ma fosse anche rivoluzionaria rispetto alla sua, quella che aveva pensato e comunicato a partire dalle Meditaciones del Quijote del 1914.La sua idea di base fu che, se la filosofia è pensiero esatto e razionale, indirizzato allo studio dell’essere, allora questa splendida attività intellettuale, durata 2.500 anni, si poteva considerare conclusa: sarebbe cominciata una «seconda navigazione» e un’«ultra-filosofia».

In vino veritas è la citazione di un titolo che Ortega progettava per un capitolo non scritto del suo commento al Convito platonico,con un simpatico riferimento al «pensiero mitico» e al dionisismo – il quale, va precisato, non rappresenta un’alternativa alla filosofia, un atteggiamento a cui in qualche modo si dovrebbe tornare. Ortega non aveva alcun atteggiamento regressivo e la critica alla nozione di essere era per lui l’esigenza di procedere in avanti, non di recuperare interpretazioni pseudo-tradizionaliste.