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BUONE LETTURE

Profilo di Ortega y Gasset

Profilo di Ortega y Gasset

Gianni Ferracuti

 

Filosofia e realtà

Per comprendere adeguatamente l’opera di José Ortega y Gasset, occorre chiarire la prospettiva che guida il suo intervento nella cultura europea contemporanea. Ortega non volle essere un saggista brillante, né un osservatore di problemi politici, né un letterato o un divulgatore di temi filosofici, né un raffinato uomo di mondo. Fu anche tutto ciò ma all’interno di un impegno più ampio e profondamente sentito: l’impegno di essere prima di tutto e sopra tutto filosofo, solo filosofo, rigorosamente filosofo. In filosofia, il suo metodo fu l’osservazione, la contemplazione disinteressata di una realtà non manipolata, vista senza la lente deformante di un’ideologia preconfezionata, descritta così come onestamente ci pare che sia.

Da questo incontro con la realtà intesa come qualcosa di concretamente esistente, in polemica con l’idealismo, nasce la sua dottrina. L’apertura verso il reale è intesa da Ortega come la caratteristica forse più importante di un nuovo modo di fare filosofia, addirittura di una nuova era del pensiero che, in riferimento a ciò che viene lasciato dietro, può essere definita post-moderna, o contemporanea. Scrive infatti

L’atteggiamento intellettuale delle nuove generazioni si differenzia da quella che adottarono le precedenti – dal 1700 – per il rifiuto dell’imperialismo ideologico. Do questo nome alla propensione a porsi davanti ai fatti esigendone la previa sottomissione ad un principio.[1]

Va però sottolineato energicamente che questa posizione di Ortega non implica la ricaduta nell’idolatria del fatto, caratteristica del positivismo ottocentesco. Il «fatto» non è soltanto la consistenza materiale di un oggetto, ovvero la mera relazione tra oggetti; «fatto» è il reale, l’incontro dell’uomo con il reale, i problemi che questo incontro pone. Per Ortega, la scienza sperimentale, con la sua esattezza, ha un campo legittimo di attuazione, dal quale però non può uscire fuori, pretendendo di monopolizzare la conoscenza: essa rappresenta una porzione limitata della mente e dell’organismo umano. Quando arriva al confine che la definisce deve arrestarsi, senza però pretendere che contemporaneamente si arresti anche l’uomo

Con violenza il secolo scorso ha preteso di frenare la mente umana là dove termina l’esattezza. Questa violenza, questo volgere le spalle agli ultimi problemi, fu chiamato agnosticismo. Ecco ciò che ormai non è giustificato né plausibile.

Non ci è consentito di rinunciare all’adozione di una posizione di fronte ai temi ultimi. Che lo vogliamo o no, in un modo o nell’altro, si incorporano a noi.[2]

Quando ci poniamo di fronte alla realtà, un uomo concreto e un mondo concreto si incontrano: perché sia possibile a me, come persona, conoscere la realtà è necessario che io esista, che sia vivo. La «mia vita»è il presupposto della conoscenza. Cosa può risultare al termine di un’indagine su qualunque oggetto, non posso predeterminarlo; però all’inizio dell’indagine, risulta che io sono vivo, perché altrimenti non si dà problema.

Detto in questo modo, può sembrare persino lapalissiano. In verità è bene che lo sia, a patto di indagare quali sono le conseguenze di questa posizione. Il fatto è che la vita, presupposta alla conoscenza, non è vita in astratto, ma in concreto, una realtà concreta, individuata: è la mia vita, la vita che ciascun uomo, riferendosi a se stesso, chiama mia:  «Ogni volta che dico “vita umana” bisogna evitare di pensare alla vita di un altro, e ciascuno deve fare riferimento alla sua vita».[3]

Questa «mia vita» è chiamata da Ortega «realtà radicale» nel senso che è la radice, il punto di partenza della conoscenza, e non nel senso che è l’unica realtà esistente: ogni altra realtà proprio in quanto esiste, può essere conosciuta solo come contenuto della mia vita. Siamo agli antipodi di ogni forma di solipsismo: «Questa realtà radicale – la mia vita – è così poco egoista e affatto solipsista, che è per essenza l’area o scenario offerto e aperto perché ogni altra realtà si manifesti in essa».[4]

In relazione alla conoscenza, i problemi nascono quando si tiene presente che questa mia vita è solamente una minuscola porzione dell’universo, è circoscritta spazialmente e storicamente, ed opera solo su un frammento della massa enorme dei dati che l’universo rappresenta per l’investigatore. La realtà supera abbondantemente ciò che posso toccare, abbracciare, osservare, studiare. Ne risulta che una teoria filosofica, prima ancora di essere vera o falsa, è prospettica, vale a dire è ciò che risulta a partire da quell’irripetibile punto di osservazione che è «la mia vita»

Questa concezione di Ortega ha dato luogo a molti attacchi e accuse di relativismo, formulate nonostante certe prese di posizione del pensatore spagnolo estremamente critiche nei confronti di ogni visione relativista. Si può chiarire la particolare concezione di Ortega ricorrendo a due esempi, forse banali, ma appropriati.

a) Se io (io inteso in senso concreto, come persona storica, fisica, e non come concetto) mi trovo di fronte ad un grattacielo con una facciata in marmo rosa, poniamo, la facciata esposta verso Nord, ho una conoscenza sicura del fatto che la facciata che vedo è in marmo rosa. Nulla però mi garantisce sul fatto che anche la facciata diametralmente opposta, sul lato Sud, sia in marmo rosa. In effetti, io non sto vedendo attualmente questa facciata Sud, e potrebbe darsi il caso che, per una bizzarria dell’architetto, questa sia rivestita di marmo bianco a quadri blu. Orbene, nella contemplazione dell’universo, io troverò sempre un certo numero, molto grande, incalcolabile, di facciate che non vedo, e sono forzatamente costretto ad elaborare teorie basandomi su un numero eccessivamente ristretto di facciate che sto vedendo.

b) Poniamo ora che io domandi a quattro persone di descrivere un semaforo, e che ottenga come risposte, rispettivamente: 1) è alto due metri; 2) è dipinto di verde; 3) ha le luci che si accendono a turno, come obbedendo ad un codice; 4) blocca le automobili quando è accesa la luce rossa. Ciascuna di queste risposte è prospettica, nel senso che coglie con fedeltà un aspetto della realtà e nessuna è falsa. Questo non vuol dire perdere la distinzione tra verità e falsità ma considerare che un’osservazione può essere vera o falsa, pur restando sempre un’osservazione prospettica, cioè riportando ciò che risulta a partire da un determinato punto di vista. L’errore più grande sarebbe assolutizzare una verità parziale, ed escludere tutte le altre. Al contrario, la conoscenza globale del reale richiede che vengano articolate, come nel caso del semaforo, tutte le osservazioni vere, controllabili, risultanti da un determinato punto di vista. Questa coordinazione, che rimane sempre aperta a nuove prospettive, a nuove analisi intese a confermare o a correggere, è memoria e tradizione. Se io voglio sapere il colore del marmo della facciata Sud del grattacielo di poco fa, mi debbo alzare, debbo camminare e andare a guardare. Ciò che risulta si aggiunge a ciò che si sapeva. Questo processo avviene in un lasso di tempo, giacché non mi è possibile stare contemporaneamente a Nord e a Sud, e richiede che l’osservazione iniziale sia conservata, memorizzata, ma con apertura mentale, perché può capitare di tornare di fronte al nostro marmo rosa e scoprire che non era affatto rosa, ma bianco, e che ci era apparso rosa per via di un particolare effetto di luce.

 

Verità e storia

Per Ortega, le verità

di per sé preesistono sempiternamente, senza alterazione né modificazione. Senza dubbio, la loro acquisizione da parte di un soggetto reale, sottoposto al tempo, procura loro un aspetto storico: nascono in una data e, a volte, si volatilizzano in un’altra. è chiaro che questa temporalità non grava propriamente su di esse, ma sulla loro presenza nella mente umana. Ciò che realmente si verifica nel tempo è l’atto psichico con cui le pensiamo, il quale atto è un evento reale, un mutamento effettivo nella serie degli istanti. Ciò che, in rigore, ha una storia, è il nostro conoscere o ignorare le verità. Precisamente questo è il fatto misterioso e inquietante, giacché avviene che con un pensiero nostro, realtà transitoria e fugace di un mondo fugacissimo, entriamo in possesso di qualcosa di permanente e sovratemporale. Dunque il pensiero è un mondo nel quale si toccano due mondi di consistenza antagonica.[5]

Occorre sottolineare bene che i mutamenti delle opinioni non sono un processo a seguito del quale la verità di ieri si converte in errore. Si attua invece un mutamento nella prospettiva dell’uomo, a seguito del quale ciò che era un errore anche ieri (ma non ce ne eravamo accorti) viene riconosciuto come tale:

Non sono dunque le verità ma è l’uomo a cambiare, e poiché cambia, va percorrendo la serie delle verità, va selezionando da questo orbe trasmondano quelle che gli sono affini, cecandosi per le altre. Si noti che questo è l’apriori fondamentale della storia.[6]

L’uomo coglie quella parte di verità che, di volta in volta riesce a percepire, con uno studio progressivo, svolto nella gradualità imposta dal tempo, influenzato dalle circostanze storiche, dal sistema di credenze vigenti. Pezzo dopo pezzo, si mette insieme il mosaico della verità per momenti successivi, e mentre alcune tessere vengono inserite, capita che altre si stacchino e vadano perdute. La possibilità dell’errore – che viene così ad escludere ogni ideologia di tipo progressista – deriva proprio dal carattere parziale, frammentario dei dati che possiamo abbracciare, di fronte alla completezza dell’universo.

L’errore si commette nella storia, e nella storia viene smascherato, in un processo continuo di approssimazione e allontanamento, nel quale idee, progetti, istituzioni saggiano la loro capacità di essere adeguati sostegni alle esigenze della vita umana oppure di essersi trasformati in gabbie che imbrigliano ogni novità in schemi di vita già vissuti, assurdamente imposti agli altri. La continua responsabilità che all’uomo viene assegnata, in riferimento alle sue scelte, esclude ogni possibilità di rifiutare a priori il passato o la novità, richiedendo invece che entrambi concorrano a trasformare in positivo il presente. Questo implica, certamente un progresso, ma nega la pretesa ottocentesca, secondo cui l’uomo progredisce necessariamente:

Il presupposto minimo della storia è che il soggetto di cui parla possa essere compreso. Orbene, non si può comprendere se non ciò che possiede una qualche dimensione di verità. Un errore assoluto non ci sembrerebbe neanche tale, perché non lo comprenderemmo. Il presupposto profondo della storia è dunque l’esatto contrario di un radicale relativismo. Quando essa va a studiare l’uomo primitivo, suppone che la sua cultura possedeva senso e verità e se l’aveva, continua ad averli. Quali, se a prima vista ci sembra così assurdo ciò che quelle creature fanno e pensano? La storia è precisamente la seconda vista, che riesce a trovare le ragioni dell’apparente irrazionalità.[7]

La storia è per l’uomo ciò che la natura è per le cose; l’uomo è fatto di storia:

La sua umanità quella che in lui comincia a svilupparsi, parte da un’altra che già si era sviluppata ed era arrivata al suo culmine insomma, l’individuo aggiunge alla sua umanità un modo di essere uomo già forgiato, che egli non deve inventare, dovendo semplicemente installarsi in esso, partire da esso per il suo sviluppo. (…) L’uomo non è un primo uomo e un eterno Adamo, ma è formalmente un uomo secondo, terzo, ecc.[8]

In sostanza, l’uomo è costitutivamente un erede; non è un tradizionalista, ma è la tradizione vivente:

Il passato, per essere propriamente tale, deve esserlo in un presente, deve trovarsi conservato in un presente. Altrimenti non sarebbe nemmeno passato, ma semplicemente nulla, pura inesistenza. L’uomo è appunto colui che conserva presente questo passato. L’uomo è un animale che ha dentro tutta la storia. Non esiste definizione dell’uomo meno darwiniana.[9]

Naturalmente, proprio per «essere storia» l’uomo non è prigioniero delle forme del passato, delle quali anzi è stato artefice. Esso è storia fatta da altri uomini, e che venga conservato non implica che si cessi di fare storia, di farla anche aprendo dimensioni nuove. La tradizione, in questo senso, non si esaurisce nella conservazione della memoria storica, nella sopravvivenza di strutture e comportamenti ritenuti normativi e immutabili, ma è memoria e creatività; è

a) il passato storico che influenza il presente;

b) il momento presente in cui agisco concretamente;

c) il futuro che ho in vista al momento dell’atto presente, e che andrà a configurarsi anche in base all’uso che faccio della mia creatività e della libertà:

L’individuo umano, nascendo, va osservando tutte le forme di vita (esistenti): ne assimila la maggior parte, ne rifiuta altre. Il risultato è che, nell’un caso come nell’altro, egli è, costituito, positivamente o negativamente, da questi modi di essere uomo che erano già presenti prima della sua nascita. Ciò comporta una strana condizione della persona umana, che possiamo chiamare la sua essenziale preesistenza. Cioè che un uomo, o un’opera dell’uomo, non comincia con la sua esistenza, bensì la precede. Si trova preformato nella collettività in cui comincia a vivere. Questo precedersi in gran parte a se stessi, questo essere prima di essere, dà alla condizione dell’uomo un carattere di continuità. Nessun uomo comincia ad essere uomo, nessun uomo esaurisce l’umanità ma ogni uomo continua l’umano che già esisteva. Questa continuazione può essere indifferentemente positiva o negativa, può consistere nell’accettare o nel rifiutare ciò che è vigente; in entrambi i casi, l’apriori storico che è l’epoca, che è il tempo in cui l’uomo vive, agisce su di lui e lo costituisce.[10]

La storicità dell’uomo è un elemento che acquista una importanza insuperata, ove si tenga conto che, per Ortega, la storia è la realtà trascendente. La struttura della nostra vita odierna è quella, che è perché tutte le precedenti forme di vita furono come furono. Ciascuna epoca è necessariamente inserita in una serie che, nel suo insieme, è il destino umano, è il sistema della storia. «Il destino umano costituisce una melodia in cui ciascuna nota possiede il suo significato musicale collocata nel suo posto tra tutte le altre».[11] Si noti bene che il corso totale della storia, il destino umano, non è soltanto la somma degli eventi storici: esso possiede, nella sua globalità un significato che trascende gli eventi singoli. Evidentemente, se Cesare non avesse attraversato il Rubicone, il nostro attuale presente storico si configurerebbe in maniera diversa. Però

1) Cesare ha attraversato il Rubicone;

2) poteva non farlo, ma lo ha fatto;

3) quando lo ha fatto, certamente avrà vagliato tutti gli elementi e le possibilità della sua situazione, avrà bilanciato i pro e i contro, ma non si sarà messo a pensare che grazie al suo atto il nostro oggi sarebbe stato così come è e non diverso. Al significato che il fatto ha per Cesare si sovrappone il significato che il fatto ha nella storia, e i due significati non coincidono, ma sono l’uno la premessa dell’altro, e il secondo, il significato storico, è rigorosamente trascendente: la storia è «la melodia del destino universale umano – il dramma dell’uomo che è rigorosamente parlando, una sacra rappresentazione, un mistero nel senso calderoniano, vale a dire: un accadimento trascendente».[12]

Di fatto, questa impostazione orteghiana è metafisica, anche se si tratta di una metafisica che non si fonda sulle regole della ragione sillogistica, e se la strada per accedervi passa attraverso lo studio dell’uomo.

 

L’uomo e la circostanza

L’uomo, dunque, è un essere concreto, il che significa che, pensando «uomo» non si deve fissare la mente in concetti come «bipede implume», «animale razionale», «animale politico», «individuo», ecc. Occorre invece raffigurarsi una realtà densa e pesante, e dunque anche un pezzo di terra su cui appoggiarla, un albero per farle ombra, un pezzo di formaggio per nutrirla, una mucca, altri uomini, una complessa serie di azioni e reazioni tra la persona e la realtà e così via: l’uomo concreto in una circostanza concreta e storica:

Vivere consiste nel fatto che l’uomo è sempre in una circostanza, nel fatto che egli si trova immediatamente, e senza sapere come, immerso, proiettato in un orbe o contorno che non si può cambiare, in questo mondo che ora è presente. Per reggersi in piedi in questa circostanza, deve fare sempre qualcosa. Però questo “dover fare” non gli è imposto dalla circostanza, al modo in cui, ad esempio, al grammofono è imposto un repertorio di dischi, o ad un astro la traiettoria dell’orbita. L’uomo, ciascun uomo, deve decidere in ciascun istante ciò che farà, ciò che sarà nell’istante successivo. Questa decisione è intrasferibile, nessuno può sostituirmi nel compito di decidermi, di decidere della mia vita.[13]

Il rapporto tra la vita umana e la circostanza storica, inevitabile ed imposta, è indissolubile. La circostanza è primariamente, un puro problema che occorre risolvere:

Riflettiamo sulla circostanza, e questa riflessione ci fabbrica un’idea, un piano o architettura del problema, del caos che è di per sé primariamente, la circostanza. Questa architettura che il pensiero pone sul nostro contorno, interpretandolo, la chiamiamo mondo o universo.[14]

Meditare sul problema della circostanza è una possibilità specificamente umana. L’animale, in effetti, sembra governato più dagli avvenimenti del mondo esterno che da un suo centro guida, è sempre attento a ciò che accade fuori di lui, è attratto dal mondo. Al contrario, l’uomo

può di quando in quando staccarsi dal suo contorno, non preoccuparsene e, sottomettendo la sua facoltà dell’attenzione ad una torsione radicale – incomprensibile zoologicamente – voltare le spalle al mondo e mettersi dentro di sé attendere alla sua propria intimità, occuparsi di se stesso, e non dell’altro da sé delle cose.[15]

Il pensare è appunto, il potere di ritirarsi virtualmente e provvisoriamente dal mondo e mettersi dentro se stessi, immedesimarsi (ensimismarse). Ciò implica, in primo luogo, che ci si possa allontanare dal mondo senza rischio e, in secondo luogo, che si abbia un «posto» dove andare;

Però il mondo è la totale esteriorità, l’assoluto fuori che non consente nessun altro fuori. L’unico fuori da questo fuori che è possibile, è precisamente un dentro, un intus, l’intimità dell’uomo, il suo se stesso, che è costituito principalmente da idee.[16]

Ovviamente non si tratta di un luogo fisico; pensare alla propria interiorità come ad un posto, quasi fosse geograficamente collocabile, rappresenta una metafora per indicare una realtà del tutto eterogenea rispetto all’universo esteriore.

Attraverso la riflessione, l’uomo organizza dei piani d’azione per intervenire sulla circostanza. Nota Ortega che l’uomo pone un impegno così grande nel compito di vivere che, quando non può soddisfare le necessità immediate della sua vita, non si rassegna a lasciarsi morire, ma interviene per modificare profondamente la sua situazione nel presente. Se la natura non gli fornisce soluzioni, l’uomo pone in funzione una seconda linea di attività se deve scaldarsi e non c’è fuoco a portata di mano, produce fuoco. Ciò pone in evidenza due fatti: da un lato, fare fuoco è un fare ben distinto dallo scaldarsi, così come coltivare un campo è distinto dall’alimentarsi, e inventare l’automobile è distinto dal correre; dall’altro, le necessità sono tali per la vita, ma non sono la vita. La vita dell’uomo non si riduce alla soddisfazione delle sue necessità vitali. Anzi, qualora gli riuscisse di soddisfare queste, all’uomo resterebbero «quelle attività e la vita che egli considera come qualcosa di autenticamente suo; come la sua autentica vita».[17]

La vita e l’attività umana non coincidono con ciò che viene richiesto dalle oggettive necessità di sopravvivenza anche se è naturale che l’uomo non possa prescindere in maniera radicale da queste necessità:

Questo chiarisce un poco il fatto che l’uomo possa cessare provvisoriamente di occuparsi di queste necessità le sospenda e distanziato da esse possa passare ad altre occupazioni che non consistano nella loro immediata soddisfazione. L’animale non può ritirarsi dal suo repertorio di atti naturali, dalla natura, perché coincide con essa e non avrà al distanziarsene, un posto in cui mettersi. Però l’uomo non è la sua circostanza, ma è soltanto sommerso in essa e può in certi momenti, uscirne e mettersi dentro di sé raccogliersi, immedesimarsi (…). In questi momenti extra o sovrannaturali di concentrazione, inventa ed esegue quel secondo repertorio di atti: fa fuoco, fa una casa, coltiva i campi, costruisce l’automobile.[18]

Cioè si muove in direzione di un adattamento dell’ambiente alle sue esigenze.

È di estrema importanza il fatto che l’uomo quando sfugge alle costrizioni biologiche, inizia a compiere una serie di attività non biologiche e non imposte dall’ambiente. La nostra esistenza nel mondo consiste nell’essere circondati tanto da facilitazioni quanto da difficoltà. Se non incontrasse nessuna facilitazione, l’uomo non potrebbe vivere; gli è possibile l’esistenza proprio perché trova qualcosa su cui appoggiarsi:

Però siccome trova anche delle difficoltà questa possibilità di esistere è costantemente ostacolata, impedita, posta in pericolo. Ne deriva che l’esistenza dell’uomo, il suo trovarsi nel mondo, non è un passivo stare; al contrario, egli deve lottare, costantemente e per forza, contro le difficoltà che si oppongono a che il suo essere alloggi nel mondo.[19]

L’uomo, dunque, deve combattere per l’esistenza, a differenza ad esempio, di una pietra, a cui l’esistenza viene data già fatta. All’uomo non è data la realtà conclusa di un’esistenza fatta, ma l’astratta possibilità di esistere. Ciò lo costringe ad agire continuamente, sopra il sottofondo di una radicale insicurezza, che lo caratterizza come ansia di essere:

Un ente che è costituito dall’affanno di essere, che consiste nell’affannarsi per essere, evidentemente già è poiché altrimenti non potrebbe affannarsi. Però che cosa è questo ente? Già si è detto: affanno di essere. Bene; però può sentire affanno di essere solo colui che non è sicuro di essere, colui che sente costantemente problematico se sarà o no nel momento che viene, e se sarà tale e quale, in questo o in un altro modo. Così la nostra vita è affanno di essere, precisamente perché è nello stesso tempo, nella sua radice, radicale insicurezza.[20]

Ciò si spiega col fatto che l’essere dell’uomo e l’essere della natura non coincidono. All’uomo non è sufficiente essere naturale, risolvere i suoi bisogni biologici, per sentirsi realizzato. L’uomo

possiede la strana condizione per cui in parte risulta affine alla natura, ma in parte no, è nello stesso tempo naturale ed extra-naturate, una sorta di centauro ontologico, nel quale una porzione è immersa nella natura e l’altra mezza la trascende.[21]

Ciò che l’uomo ha di naturale è anche ciò che gli appare meno problematico ed è quasi sentito come meno umano;

Invece, la sua porzione extranaturale non è di già realizzata, ma consiste in una mera pretesa di essere, in un progetto di vita. Questo è ciò che sentiamo come il nostro vero essere, ciò che chiamiamo la nostra personalità il nostro io.[22]

Vivere è sforzarsi affinché esista pienamente ciò che ancora non c’è: la persona completa. Recuperando un’importante concezione dalla tradizione classica, Ortega caratterizza la vita autenticamente umana, quella cioè in cui l’uomo sente realizzato se stesso, la sua specificità, come il latino otium, che viene contrapposto al nec-otium, all’affanno per risolvere problemi di ordine pratico, e che giustamente è caratterizzato in negativo, cioè come uno sforzo i cui risultati servono a sgombrare il terreno per dare spazio a quell’otium che veramente interessa per qualificare come umana la propria esistenza.

 

Circostanza e vocazione

Le modificazioni che ciascuno tenta di apportare alla circostanza in cui si trova immerso dipendono – come si è visto – dal contatto dell’uomo con la sua interiorità dalla meditazione, dall’elaborazione di un piano d’intervento sul reale e, fondamentalmente, da una particolarissima caratteristica della persona: il progetto vitale. Immersi nella circostanza, attraverso la meditazione possiamo elaborare molti piani d’azione ipoteticamente realizzabili, i quali, però non ci si presentano tutti allo stesso modo, non ci attirano con la stessa intensità non suscitano lo stesso grado di entusiasmo:

 Una voce strana, emergente da non sappiamo quale intimo, segreto fondo nostro, ci chiama a scegliere uno di essi e ad escludere gli altri. (…) Questo è l’ingrediente più strano e misterioso dell’uomo. Da una parte egli è libero: non deve essere nulla per forza, come avviene invece ad una stella. E senza dubbio, davanti alla sua libertà si alza sempre qualcosa con un carattere di necessità quasi dicendo: quanto a potere puoi essere ciò che vuoi; però solo se vuoi essere in un tale, determinato modo sarai quello che devi essere. Vale a dire che ciascun uomo, tra i suoi vari esseri possibili, ne trova sempre uno che è il suo autentico essere. E la voce che lo chiama a questo suo autentico essere è quella che chiamiamo vocazione.[23]

La vocazione non va intesa in senso restrittivo, come il desiderio di percorrere brillantemente le tappe di una carriera professionale. Essa, anzi, è vocazione per una vita completa, concretissima, non limitata a scelte di lavoro, ma includente risposte a problematiche di ogni tipo, come il matrimonio, i figli, i modi di attuazione di un credo religioso o politico, la struttura delle proprie relazioni interpersonali, ecc. Si potrebbe parlare di missione, in senso lato, di ciò che l’uomo è chiamato a fare nella propria vita, con il presentimento, che si rivela del tutto reale, che obbedendo a questa chiamata egli si sente in pace con se stesso, si realizza. Però obbedendo ad un progetto che non gli è imposto, ma proposto, suggerito, progetto che l’uomo è:

Questo progetto in cui consiste l’io, non è un’idea o un piano ideato dall’uomo e liberamente scelto. è anteriore, nel senso di indipendente, a tutte le idee formate dalla sua intelligenza, a tutte le decisioni della sua volontà. Più ancora: ordinariamente non abbiamo di esso che una conoscenza vaga. Senza dubbio è il nostro autentico essere, è il nostro destino. La nostra volontà è libera per realizzare o no questo progetto vitale che ultimamente siamo, però non può correggerlo, cambiarlo, prescinderne o sostituirlo.[24]

Questo progetto «preme sulla circostanza per entrare in essa. Questa unità di dinamismo drammatico tra entrambi gli elementi – io e mondo – è la vita».[25]

È interessantissimo ciò che Ortega dice applicando la nozione di progetto vitale alla persona del filosofo, e distinguendo tra la metafisica, quale elenco di dottrine raccolte nei libri di storia della filosofia, e la vocazione vissuta alla ricerca metafisica, quale la sperimenta in se stesso il vero filosofo: aderire totalmente a ciò che sentiamo come nostro vero io,

fare questo è forse, l’autentico fare metafisica o, detto in altra maniera, metafisica è nella sua ultima verità ciò che fa l’uomo quando agisce per questa forma di necessità intima, e non quando, semplicemente, “studia” metafisica o la sceglie come carriera e l’apprende o insegna.[26]

Ogni uomo è obbligato, come se fosse il primo Adamo, a vivere autenticamente la sua vita. Però realizzando questo compito,

trova che non è né può essere un primo uomo, ma è l’uomo numero tot, nella lunghissima teoria di uomini, di generazioni che si sono succedute. Solo allora, dopo questo istante, scopre che significa essere per forza un successore, meglio ancora: un erede, a differenza dell’animale, che succede ma non eredita, e per questo motivo non è un ente storico.[27]

Così il cerchio tende a chiudersi, anche se non si è ancora detto nulla del suo punto centrale, che è rappresentato dal problema di Dio. Proprio in relazione al progetto vitale, il problema di Dio è suscitato, quasi come se se ne fosse percepita l’assenza, e affiora in una frase nella quale Ortega parla di un «intellettuale che è intellettuale con disperata autenticità che lo è senza rimedio, per un imperscrutabile e inesorabile decreto di Dio».[28] Ipotesi di lavoro, o suggerimento?

Dio come fondamento

Per Ortega, Dio è il grande assente, non nel senso che non esiste, bensì nel senso che l’assenza è il modo in cui riusciamo a percepirlo, il modo in cui si presenta come realtà nell’ambito della nostra vita. Questa idea, paradossale solo all’apparenza, può essere compresa meglio se accostiamo alle pagine in cui Ortega parla di Dio come fondamento dell’universo, alcune citazioni che sarebbe troppo superficiale considerare occasionali.

Ad esempio, nel quadro di una interpretazione delle cose come «segnali» per condurre l’esistenza, scrive che il cielo

ci segnala con la sua notturna presenza patetica (…) l’esistenza gigante dell’Universo, delle sue leggi, della sua profondità e l’assente presenza di qualcuno, di un Essere onnipotente che lo ha calcolato, creato, ordinato e adornato.[29]

Parlando poi della filosofia, intesa come un’attività consistente nel dire la verità delle cose, afferma che non si tratta di un dire qualunque,

ma del più solenne grave dire, un dire religioso, in cui poniamo Dio come testimone del nostro parlare, insomma, il giuramento. Ma la peculiarità di Dio è che, al citarlo come testimone in questa nostra relazione con la realtà consistente nel dirla, cioè nel dire ciò che è realmente, Dio non rappresenta un terzo. Infatti, la sua presenza è fatta di essenziale assenza; Dio è colui che è presente precisamente come assente, è l’immenso assente che brilla in ogni presente – brilla per la sua assenza – e il suo ruolo, in questa chiamata a testimone, che è il giuramento, consiste nel lasciarci soli con la realtà delle cose, in modo che tra queste e noi non c’è nulla e nessuno che le veli, copra, alteri od occulti; e il non esserci nulla tra le cose e noi è la verità. Maestro Eckhart, il più geniale dei mistici europei, chiama questo Dio “il silente deserto che è Dio”.[30]

Questo cogliere Dio per la sua assenza è strettamente legato al fatto che Dio non è una realtà tra le tante nel mondo, ma è il fondamento stesso del mondo, colui che pone in essere il mondo.

Il mondo, infatti, è l’insieme, il complesso delle cose che andiamo osservando e di quelle che, pur esistendo, non vediamo immediatamente. Però ogni singola realtà esistente nell’universo non è assoluta, ma è costitutivamente una parte, un frammento dell’universo stesso; non potrebbe esistere senza il tutto in cui è inserita: un albero concreto non può esistere se le sue radici non poggiano su un terreno, o senza l’aria, insomma se non è incastrato nel complesso delle realtà

Ad un’analisi accurata, scopriamo che la stessa materia, pur esistendo di fatto, non ha potuto darsi l’essere da sola, non ha potuto raggiungere l’esistenza in virtù di una sua propria capacità. Non si può pensare la materia senza vederla come qualcosa che è stata posta in essere da qualche altra potenza. Per presente che sia una qualunque realtà sempre le è compresente il mondo, senza il quale essa non esisterebbe. Però «neppure il mondo si spiega da se stesso: al contrario, quando ci troviamo teoreticamente dinanzi ad esso, ci è dato soltanto… un problema»[31]. In che consiste, dunque, il problema?

Il mondo che troviamo, esiste; però nello stesso tempo, non è sufficiente a se stesso, non sostiene il suo proprio essere, proclama il suo non essere e ci obbliga a filosofare; perché questo è filosofare, cercare al mondo la sua integrità completarlo in Universo e costruire alla parte un tutto dove si collochi e poggi. Il mondo è un oggetto insufficiente e frammentario, un oggetto fondato in qualcosa che non è lui, che non è ciò che è dato. Questo qualcosa ha, pertanto, una missione sensu stricto fondamentante, è l’essere fondamentale. Come diceva Kant, “quando il condizionato ci è dato, l’incondizionato ci è posto come problema”.[32]

 Fondamentale è un attributo indicante che questo essere è propriamente ciò che dà un fondamento all’universo, ciò che lo pone nell’esistenza; è ciò su cui si erge l’esistenza stessa.

L’Essere Fondamentale è postulato e non dato. In effetti, non lo si può cercare nel mondo come una cosa tra le tante, che finora non ci si è resa patente. L’Essere Fondamentale non è un dato presente, bensì appunto ciò che manca al presente. Possiamo conoscerlo nello stesso modo in cui, guardando un mosaico, percepiamo la mancanza di un certo numero di tessere; ne vediamo l’assenza, che è il suo modo di essere presente: «L’essere fondamentale è l’eterno ed essenziale assente, è quello che sempre manca nel mondo, e di lui vediamo solo la ferita che la sua assenza ha lasciato».[33] Dato ciò non può assomigliare a nessuna realtà presente, che è precisamente una realtà data, secondaria, fondata: è «per essenza il completamente altro, il formalmente distinto, l’assolutamente eterogeneo».[34]

Si tratta di una eterogeneità che Ortega non è disposto ad attenuare, per non correre il pericolo di una umanizzazione del divino:

Poiché nelle religioni appare sotto il nome di Dio ciò che in filosofia nasce come problema di fondamento per il mondo, vediamo anche in esse la presenza di due atteggiamenti: di coloro che portano Dio troppo vicino e, come Santa Teresa, lo annoverano tra le cose più quotidiane, e di coloro che, a mio giudizio con maggior rispetto e tatto filosofico, lo allontanano e lo traspongono a distanza dall’uomo.[35]

Conclusione

A questo punto, crediamo lecito trarre le conclusioni di questa sintetica rassegna delle principali tematiche del pensiero orteghiano sull’uomo, sulla storia, sulla metafisica.

1) Si è visto che l’uomo è costitutivamente un ente storico; che la storicità non è un suo attributo marginale, ma la sostanza stessa del suo essere.

2) Ogni fatto storico si pone inevitabilmente tra un fatto che lo precede e un fatto che lo segue: ciò dà alla storia una continuità, una struttura che la configura come sistema.

3) La storia è pur sempre una creazione umana, è fatta dall’uomo.

4) è fatta liberamente, esercitando la libertà, scegliendo tra le opzioni possibili all’interno della circostanza. In teoria il passato poteva essere diverso, ma non lo è stato, e il sistema della storia, la «sacra rappresentazione» del destino umano è appunto ciò che si è verificato senza la costrizione di una necessità paragonabile a quella che inchioda un pianeta alla sua orbita.

5) La storia è scienza sistematica della vita; il fatto storico è libertà esercitata.

6) Non possiamo evitare di esercitare la nostra libertà: paradossalmente siamo costretti ad essere liberi. Immersi nella circostanza, in una interrelazione drammatica, dobbiamo continuamente decidere ciò che andremo a fare nel momento successivo a quello che stiamo vivendo.

7) Questa decisione viene presa sotto la spinta del progetto vitale, cioè del «chi siamo» di fatto, senza che siamo stati noi a sceglierci questo «chi», vale a dire nel tentativo di realizzarci come persone.

8) La vocazione non spinge all’azione solo il singolo, ma intere generazioni: la mia personale vocazione e, in parte, comune alla vocazione dei miei contemporanei, è legata al presente in cui vivo, alle esperienze del passato storico memorizzato e selezionato. É facilmente avvertibile una consonanza di mentalità tra quanti sono grosso modo contemporanei (e Ortega ne parla nella sua teoria delle generazioni).

9) Il sistema della storia implica il sistema delle vocazioni; vale a dire che la mia vocazione, ciò che sento come mia personale ed intima autenticità è una categoria a priori della storia, è parte integrante del significato metafisico che la storia globale dell’uomo realizza, nel rispetto della libertà personale.

10) Si ha dunque che la storia la fa l’uomo, ma l’uomo da solo non è sufficiente a spiegarla, perché ciascun uomo si limita a farne un frammento, sotto l’istanza della propria autorealizzazione e di un suo intimo imperativo normativo. Così la storia richiede, come ogni altra realtà dell’universo, un Essere fondamentale artefice del progetto metafisico che nella storia si realizza. Detto in termini teologici, richiede una provvidenza; detto in termini sociologici, richiede una tradizione.

 

 

Altri studi su Ortega y Gasset

NOTE

[1] «Sobre la expresión, fenomeno cósmico», in J. Ortega y Gasset, Obras completas, Revista de Occidente, Madrid 1987, 12 voll., XII, pp. 577-94, p. 582. [Questa edizione viene d’ora in poi indicata con la sigla OC, seguita dal numero del volume e delle pagine].

[2] El origen deportivo del Estado, OC 2, pp. 607-23, p. 608.

[3] El hombre y la gente, OC 7, pp. 69-272, è. 99.

[4] ibid., p. 101

[5] ¿Qué es filosofía?, OC 7, pp. 273-438, p.  281.

[6] ibid., p. 284.

[7] ibid., p. 285.

[8] Historia como sistema, OC 6, pp. 13-50, p. 43.

[9] Una interpretación de la historia universal, OC 9, pp. 9-242, p. 169.

[10] El origen deportivo del Estado, OC 2, pp. 607-23, p. 611.

[11] En torno a Galileo, OC 5, pp. 9-164, p. 95.

[12] ibidem.

[13] ibid., p. 23.

[14] ibid., p. 24.

[15] Ensimismamiento y alteración, OC 5, pp. 289-315, p. 300.

[16] ibidem.

[17] Meditación de la técnica, OC 5, 316-375, 323.

[18] ibid., pp. 323-4.

[19] Meditación de la técnica, p. 337

[20] En torno a Galileo, cit., p. 32.

[21] Meditación de la técnica, p. 338.

[22] ibidem.

[23] En torno a Galileo, p. 138.

[24] Goethe desde dentro, OC 4, pp. 381-451, p. 400.

[25] ibidem.

[26] Sobre las carreras, OC 5, pp. 167-83, p. 177.

[27] ibid., p. 178.

[28] El intelectual y el otro, OC 5, pp. 509-16, p. 510.

[29] El hombre y la gente, p. 123.

[30] ibid., p. 145.

[31] ¿Qué es filosofía?, cit., p. 322.

[32] ibid., p. 333.

[33] ibidem.

[34] ibidem.

[35] ibid., p. 334.