Pier Francesco Zarcone: Turchia, minoranze e laicità
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Pier Francesco Zarcone: Turchia, minoranze e laicità

Pier Francesco Zarcone:
Turchia, minoranze e laicità

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estratto da “Studi Interculturali” 3, 2013

Studi interculturali è una rivista pubblicata dal Centro di Studi Interculturali Mediterránea, col patrocinio del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste e il coordinamento editoriale di Gianni Ferracuti. Tutti i volumi si possono scaricare gratuitamente dai siti interculturalita.it e ilbolerodiravel.org. Vengono inseriti su claydscap.com i singoli articoli della rivista, estratti dal pdf originale.

 

“Il trattamento delle minoranze etniche e religiose in Turchia e il mantenimento della sua laicità costituiscono a tutt’oggi irrisolti problemi di politica interna ed estera, e sono fonti di difficoltà sia per la normalizzazione della vita democratica di quel paese, sia per i riflessi che hanno in ordine alla sua ipotetica integrazione europea. Fermo tuttavia restando che ai fini di quest’ultima la vera pietra d’inciampo non è tanto la questione delle minoranze o della difesa della laicità, quanto il trattarsi di un paese musulmano, a prescindere dal fatto che l’impero ottomano fu parte integrante della storia europea per secoli e che la Turchia come paese – quanto meno per via della Tracia – fa parte anche dell’Europa. Indipendentemente da quale sarà l’esito finale del processo di integrazione, peraltro, un miglioramento dello stato di questi due problemi – per non parlare della loro auspicabile soluzione – andrebbe a tutto vantaggio della società turca.

La questione delle minoranze nell’impero ottomano

In merito al trattamento delle minoranze nell’impero ottomano bisogna distinguere fra quelle considerate solo sotto il profilo religioso, cioè le non musulmane e le sciite, essendo sunnita l’impero e Califfo il suo Sultano (Padişa) e quelle essenzialmente etniche, quand’anche non scollegate dalle religioni di appartenenza. Fino al secolo XIX il problema delle minoranze di natura prevalentemente etnica in pratica non esisteva poiché le popolazioni dell’impero erano considerate – politicamente e giuridicamente – in base alla loro appartenenza religiosa. Per esempio, i Cristiani ortodossi «europei» (i Rumi) per lunghissimo tempo costituirono una comunità unica posta sotto l’autorità del Patriarca di Costantinopoli e in cui rientravano greci, Bulgari, Valacchi, Transilvani ecc.

Nella nostra trattazione cominciamo dalle minoranze islamiche (cioè non sunnite), la cui storia è notevolmente travagliata, anche perché sono sempre del tipo peggiore le «liti in famiglia» e il sangue scorre a fiumi quando la «famiglia» ha natura religiosa. D’altro canto lo Sciismo costituisce una vera e propria antitesi rispetto al Sunnismo. Riguardo alle minoranze non musulmane, invece, l’impero ottomano fu per secoli un’isola di ampia (seppure utilitaristica) tolleranza e di nuova vita per tutti i dissidenti religiosi (cristiani ed ebrei) che riuscirono a trovarvi rifugio. Inoltre le popolazioni cristiane che vivevano nei territori conquistati dagli Ottomani non furono mai sottoposti a campagne di islamizzazione forzata di massa. Il che spiega molte cose in merito alla base popolare utilizzabile dalle insorgenze di greci e Slavi nel secolo XIX.

Poiché l’impero era maggioritariamente sunnita, e nell’Islam sunnita non esiste un clero (a differenza di quel che poi è avvenuto nell’Islam sciita), ma solo dei Dottori della Legge, i Sultani-Califfi per esigenze politiche e religiose li organizzarono in un’élite di funzionari statali, in modo da avere il controllo della predicazione durante il culto e del sistema di insegnamento dell’epoca. Per conseguenza – come ha sottolineato Şerif Mardin – il governo ottomano fu sia islamico sia burocratico, e burocratico nel senso che era obiettivo fondamentale dei funzionari ottomani (di tutti) la preservazione dello Stato. Un movimento che mettesse in pericolo questa costruzione statuale diventava ipso facto eretico, e quindi da combattere per entrambe le ragioni

  1. a) Le minoranze sciite

La loro è una storia notevolmente complicata e assai antica, i cui protagonisti sono stati i turcomanni Ak Koyunlular, (quelli del «Montone Bianco») sunniti, e Kara Koyunlular (quelli del «Montone nero») sciiti: due confederazioni tribali che dominarono nei secoli XIV e XV Azerbaijan, Anatolia orientale e Iran occidentale, schiacciate tra l’impero ottomano e quello safavide di Persia. Vanno pure ricordati i Qizilbaşlar («Teste Rosse»), sciiti turcomanni dell’Anatolia orientale e del Kurdistan, così chiamati per il loro berretto rosso a 12 punte a ricordo dei 12 Imām dello Sciismo duodecimano.

La dinastia ottomana nella sua lotta a oltranza contro gli Sciiti anatolici unì ben volentieri il suo ruolo di campione della fede islamica «ortodossa» alla contingenza di combattere forze interne alleate con il nemico persiano, o comunque da esso utilizzabili. Per la lunghissima durata dell’inimicizia tra l’impero ottomano e la Persia, gli Sciiti anatolici sono sempre stati visti e trattati con ostilità nei momenti peggiori, e con diffidente discriminazione in quelli «migliori». Contro costoro furono di volta in volta praticate la scelta fra conversione forzata e morte, la deportazione in più tranquille zone periferiche, il controllo dell’educazione.

Tuttavia non si deve pensare che il Sultanato – al di là dell’esigenza di conservazione dell’impero – intendesse ergersi a custode della più rigida e intollerante ortodossia sunnita. Ad attestarlo non è tanto la nota passione dei Sultani per il buon vino, quanto l’indisturbata e massiccia diffusione di confraternite religiose umaniste e alquanto eterodosse come la Mevleviyye (fondata da Jalal ad-Din Rūmī, detto Mevlana, nostro signore; n. 1203) e quella più eterodossa ancora dei Bektaşiler (fondata da Haci Bektaşi Veli; n. 1209), le quali però non si schierarono formalmente nel campo sciita pur incorporandone elementi insieme ad altri non islamici. Anzi quella di Haci Bektaşi diventò presto la confraternita preferita dai Giannizzeri, vale a dire l’élite dell’esercito, almeno fino al secolo XVIII.

  1. b) Le minoranze non musulmane

Le minoranze non musulmane sono diventate un problema politico nel periodo compreso fra il secolo XIX e la prima metà del XX, che in Europa è stato caratterizzato – fra l’altro – dall’esplosione e del dilagare dei nazionalismi. E i nazionalismi significano inevitabilmente conflitti armati, poiché – utilizzando l’espressione di Cardini e Valzania – «Immaginare opposizioni irriducibili e contribuire a radicalizzare quelle esistenti rappresentano buone strade per arrivare a uno scontro violento».

La loro forza virulenta ha squassato dall’interno, e indebolito all’estremo, gli Stati imperiali multinazionali del continente, con particolare riguardo agli imperi asburgico e ottomano. Per quest’ultimo fu un’autentica e sanguinosa tragedia, poco evidenziata dai libri di storia occidentali, per lo più scritti nell’ottica dei popoli (e/o delle loro minoranze) che si ribellarono al Sultano di Costantinopoli (Kostantiniyye). Questo, con la duplice conseguenza di occultare i vari aspetti positivi dell’esperienza storica ottomana e di ignorare disinvoltamente gli atroci massacri e le pulizie etniche patite, ad opera dei «cristiani» balcanici, dai sudditi ottomani di religione islamica.

La prima sanguinosa manifestazione del nazionalismo nell’impero ottomano fu l’insurrezione in Grecia durante gli anni 1821-32, presso di noi nota (quando lo è) solo nell’ottica del filo-ellenismo ottocentesco e di suggestionanti immagini tipo «I massacri di Scio» del pittore Delacroix. In precedenza non esisteva nei domini del Sultano un problema delle minoranze analogo a quello che poi avrebbero conosciuto gli Stati «nazionali» (europei e non), in misura quantitativamente e qualitativamente variabile.

Nella storia del mondo islamico e dell’Europa orientale l’impero ottomano ha costituito una delle più estese e potenti entità politiche «plurali», cioè multi-etniche e multi-religiose. Per quanto dai primi del secolo XVIII il Sultano fosse anche Califfo dei Musulmani sunniti – l’ordinamento giuridico dell’impero non si riduceva certo alla sharī’a (in turco şeriat). D’altro canto nessuna realtà politica islamica è mai stata retta solo da essa, né poteva esserlo. Pur essendo custode del rispetto della legge religiosa, il Sultano con i suoi dignitari legiferava e amministrava in tutti gli ambiti e settori non toccati da previsioni della sharī’a, dando origine alla formazione di un diritto secolare (kanun) accanto a quello religioso.

In questa società plurale i soggetti collettivi non musulmani avevano una connotazione religiosa e non etnica, e dal secolo XIV erano organizzati in milletler, cioè comunità confessionali dotate ciascuna di un proprio specifico status per sé e per i membri. Era un modo come un altro per includere i sudditi non-musulmani nella vita dell’impero, in assenza del principio di uguaglianza formale e astratta dei cittadini, ancora da venire. Questo assetto rappresentò una rilevante innovazione rispetto al mero sistema di tolleranza incarnato dal regime di protezione della «gente del Libro» (in arabo ahl al-Kitāb), di matrice coranica, giacché attraverso il millet si attribuiva a popoli e gruppi religiosi conquistati una notevole autonomia amministrativa e giudiziaria gestita dalle rispettive autorità religiose. Non fu un sistema statico, bensì sempre in evoluzione, anche sul piano numerico. In certi periodi effettivamente l’integrazione ci fu e non di secondaria importanza: per esempio, i marinai della flotta ottomana che subì una battuta d’arresto con la battaglia di Lepanto erano in grande maggioranza greci[3] liberi; e come ulteriore ma significativo esempio si può citare l’originaria ostilità dell’élite greca di Costantinopoli (i cosiddetti Fanarioti) verso l’insurrezione nella penisola ellenica. Il subbuglio nazionalistico non poteva non suscitare effetti anche nelle élite ottomane di religione islamica, e taluni settori diventarono consapevoli dell’esigenza di adeguarsi al cambiamento politico-culturale determinato dal nazionalismo delle popolazioni cristiane, tanto più che il virus cominciava a manifestarsi anche in settori arabi dell’impero, travalicando l’unità religiosa islamica. Il che in buona sostanza voleva dire che la condivisa appartenenza alla comunità musulmana (umma; in turco ümmah) non costituiva più un collante sufficiente. L’adeguamento a questa ormai insuperabile situazione centrifuga si inserì nel processo di modernizzazione dell’impero, a un certo punto promosso dagli stessi Sultani…”

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