DADAISMO / AVANGUARDIE,  DIBATTITO FILOSOFICO

Nicola Moscardelli: Dadaismo e misticismo

Dadaismo e misticismo
Nicola Moscardelli

Il Lavoro d’Italia (no data)

(Immagine di copertina:
Augusto Orlandi – Ascoli Piceno 1879 – Buenos Aires 1959)
Ritratto di Nicola Moscardelli
)

 

Nel mese di settembre del 1916, essendo io ricoverato in un ospedale romano, ricevei una lettera da Zurigo scritta in un francese pittoresco. Ignoto m’era il mittente, ma per quanto io cercassi di leggere le sue parole contro la luce della sanguinante ora che volgeva, non mi riuscì di scoprire in esse nulla che potesse far supporre qualche altro interesse men che lecito oltre l’interesse letterario che aveva mosso lo scrittore a rivolgersi a me. In breve fra me e l’ignoto di Zurigo si stabilì un’attiva corrispondenza. Egli mi chiedeva notizie della vita artistica italiana, di qualche scrittore che più degli altri mi interessava, e desiderava che gli inviassi anche qualche scritto per una rivista che non ricordo più se era imminente o già ai suoi primi numeri. La rivista si chiamava «Dada».

Ricordo ancora il tempo trascorso a cercar di decifrare il senso di quella misteriosa parola. Non essendovi riuscito, ne chiesi al direttore stesso della rivista. Egli mi rispose: «Dada? Rien».

Avrete già capito che il mio corrispondente era Tristan Tzara, il fondatore del dadaismo. A quell’epoca, a dire il vero, esisteva “Dada” ma non esisteva ancora il dadaismo. Il dadaismo venne dopo, a guerra finita: ed ebbe il suo quarto d’ora di notorietà scandalosa come in genere tutto ciò che gira per il mondo col timbro di Parigi dove il suo creatore si era trasferito. Naturalmente, essendo «Dada = Rien», nelle sue file si trovarono mescolati artisti, filosofi, pittori e scrittori delle più diverse tendenze e dei più opposti temperamenti. Non dirò nemmeno che il suo fondatore fosse il più autentico poeta della brigata. Ma ricordo benissimo il turbamento che mi coglieva sia leggendo le pagine della rivista zurighese sia gli opuscoletti ottimamente stampati che lo Tzara mi inviava assiduamente con le illustrazioni – intese nel senso meno tradizionale della parola – del suo compagno Marcel Ianco [Janco], anch’egli rumeno, pittore.

Quelle poesie, sia le primissime della rivista «Dada» sia le seguenti delle altre riviste non avevano, manifestamente, alcun senso. Abolita la logica (non parliamo della metrica), abolita la sintassi, abolito ogni legame sia pure fonico tra l’una e l’altra frase, non restava che una lunga sequela di immagini senza scopo e senza meta. I critici letterari ai quali per caso feci conoscere qualcuno di quegli scritti scrollavano le spalle sorridendo di magnanimo disprezzo, mormorando tutt’al più: «Futurismo!».

Come spesso accade, i critici letterari, osservando il mondo attraverso le lenti della propria estetica o della propria abitudine, il che fa lo stesso, non si erano accorti di una cosa semplicissima della quale gli uomini vivi si accorgono quotidianamente: che cioè nulla esiste a questo mondo che non abbia importanza e significato. (Per portare un esempio di evidenza universale: chi non ha sentito nel ’19 o nel ’20 esclamare da qualche consumatissimo politico: «I fascisti? quattro gatti!». Se quei signori, invece di giudicare il mondo attraverso le frasi fatte del proprio partito si fossero guardati intorno avrebbero veduto che i fascisti non erano quattro ma almeno cinque).

Mi pareva impossibile, dunque, che della gente la quale sapeva ragionare in tutte le occasioni, sistematicamente sragionasse non appena avesse una penna in mano. Ritenevo inconcepibile che si potesse votare la propria opera alla derisione dei dotti e dei semplici, quando una mediocre intelligenza riesce sempre, soprattutto fuori d’Italia, a trovare i propri lettori, i propri devoti e, infine, il proprio posto nel quadro della vita collettiva. Esistono naturalmente nel mondo degli esseri i quali desiderano sempre e semplicemente «épater le bourgeois»: ma condizione prima ed essenziale di ogni meraviglia è che ci sia una porta o una porticina attraverso la quale il buon senso o il senso comune possa giungere di fronte alla meraviglia stessa e sgrani gli occhi spalancando la bocca.

Nelle manifestazioni dadaiste, invece, nulla v’era che desse appiglio almeno alla curiosità: Poemi e pitture erano simili ad un’altissima parete di marmo nella quale l’occhio più esperto non discerneva alcuna frattura per la quale passare al di là.

La chiave di volta di tutto il sistema, il cifrario di quegli scritti e di quei disegni fu data, forse all’insaputa dello stesso autore, dello stesso Tristan Tzara: il quale in una delle tante riviste cui il Dadaismo diede vita, pubblicò due, come dire?, lavori. Rappresentavano il primo «La Gioconda» fedelmente riprodotta dall’originale leonardesco: ma sulle labbra della donna ambigua erano stati aggiunti due baffetti. Consisteva il secondo nella riproduzione esattissima, fotografica, di un biglietto d’ingresso per una qualunque sala di concerti di Parigi: e in calce era firmata: Tristan Tzara con lo stesso diritto con cui Petrarca avrebbe firmato un suo sonetto. Era l’estremo limite a cui si potesse giungere. Dopo di ciò veniva la pagina bianca: non la pagina bianca nella quale Mallarmé vedeva tutti i capolavori non potuti scrivere, ma la pagina bianca sintesi di tutti i capolavori scritti e da scrivere.

***

Se nella campana pneumatica si toglie l’aria tutti gli oggetti, siano essi pezzi di ferro o piume di colomba, hanno un identico peso e precipitano con eguale velocità. L’aria è la contingenza che dà ad ogni oggetto un peso, un valore proprio, diverso dal peso e dal valore dell’oggetto vicino: tolta l’aria si entra nel regno dell’assoluto, e tutto pesa egualmente, ossia nulla ha più peso.

Il dadaismo operava nel regno dello spirito con un medesimo procedimento: toglieva l’aria, e nell’assoluto dimostrava che tutto si equivale, la «divina Commedia» e il biglietto d’ingresso di una sala di concerti, la «Gioconda» quale uscì dalla fantasia di Leonardo e la pittura quale può uscire dal cannolo [?] di carbone di un fanciullo. Abolite le umane gerarchie, dissipati i valori del mondo, che cosa resta delle mirabili costruzioni di cui gli uomini vanno fieri? Nulla. La Commedia e il biglietto d’ingresso precipitano con eguale velocità. Che cosa sono dunque essi, fuori dall’atmosfera contingente che ce le fa apparire diverse? «Dada. Rien».

***

Il mistico, l’asceta, l’uomo che guarda non le cose ma la loro sostanza, sebbene sembra camminare sulla via di tutti i giorni, cammina in verità sul ciglio di un altissimo monte sulla cui vetta l’aria rarefatta dà l’impressione del soffocamento, quasi che l’aria mancasse del tutto. Mentre il restante del mondo osserva e giudica ogni cosa secondo le misure che il mondo stesso ha apprestate, egli osserva e giudica con una bilancia sulla quale uomini ed eventi in apparenza diversissimi hanno un medesimo peso.

Il mistico e il dadaista, venuti da opposti punti dell’orizzonte, si ritrovano ad una medesima meta e dànno eguale giudizio.

L’uno e l’altro hanno fatto il vuoto dell’assoluto intorno alle cose e alle persone, parlano una stessa lingua e però possono rispondere con una medesima parola: Nulla. Rien. Dada.

Si vede chiaramente come dadaismo e  futurismo non hanno nulla in comune. Il futurismo è nato da esuberanza di vita, è ottimista e tende alla vita attiva; il Dadaismo nasce da esuberanza di pensiero, è pessimista e tende alla vita contemplativa. Attivista l’uno, quietista l’altro; il primo ha una sua visione da imporre, una sua parola da dire; l’altro non ha da imporre nessuna sua visione, non ha nulla da dire: nulla vale la pena d’esser detto; tutte le parole contingenti, del mondo, si traducono nell’eterna parola, Nulla, Dada.

È evidente, a questo punto, che se nulla vale, non vale nemmeno dimostrare l’essenza del nulla nelle parvenze reali. Esperimentato sino in fondo questo pensiero, si smette di scrivere, di dipingere, di scolpire, in una parola: di fare; e ci si richiude nella trappa o ci si abbandona alla vita dei sensi.

Tristan Tzara, per conto suo, già da tempo ha smesso ogni attività e nulla si sa più di lui.

Gli altri, più artisti di lui, dopo aver errato sui limiti del nulla, soro ritornato ad una forma d’arte da essi chiamata superrealismo o surrealismo. Questo nuovo modo di considerare il mondo consiste nel discernere nella realtà una realtà più intima, più tragica e più reale: consiste nello scoprire intorno ad ogni oggetto l’alone che lo circonfonde, quasi respiro che da essa emana. Per evadere dalla realtà non c’è che da tuffarsi in essa, imbeversene fino alle midolla ed esprimerla nelle forme adatte.

Taluno di questi artisti ama definirsi metafisico: ma è chiaro che ogni vera arte è metafisica: se così non fosse sarebbe semplicemente della fotografia.

Il proposito di questi artisti è eccellente: anche se i risultati non sono sempre ottimi. Cercare, e sbagliare, val sempre di più che non cercare e però non sbagliare mai.

Ma, come abbiamo detto, il fine, anche se solo ora è stato dichiarato, fu perseguito anche da altri artisti i quali, per la sola forza di temperamento, riuscirono a raggiungerlo senza dichiararlo mai.

Il primo degli scrittori surrealisti, primo in ordine di tempo e di merito, è Dostoievschi. Il grande russo, in tutta l’opera sua, non ha fatto altro che sottoporre ai raggi della sua sensibilità la vita di tutti i giorni, la più mediocre e triste vita quotidiana: scoprendo in essa i tesori che le fantasie romantiche cercavano nelle avventure esteriori, trovando in essa l’oro che si nasconde sempre anche nel piombo.

Varcato l’ultimo limite, lo spirito rifabbrica il suo metro, riordina le gerarchie e prosegue nel suo cammino, nuovo ed antico insieme.