
Adriano Tilgher: Teatro irreligioso: grotteschi e futuristi (1925)
Teatro irreligioso: grotteschi e futuristi
Adriano Tilgher
Conscentia, Roma, 11 Luglio 1925
Quella negazione dei valori borghesi, consacrati dalla tradizione e dalla società, che nel teatro dei crepuscolari era latente e larvale, prorompe aperta violenta impudente in quel coacervo di movimenti di tendenze di tentativi che riempì di polvere e di rumore il teatro italiano tra il 1916 e il 1920, e che si è convenuto di chiamare Teatro del grottesco, dalla parola grottesco che il più interessante di questi autori, Luigi Chiarelli, diede a una sua commedia, La maschera e il volto, con la quale ebbe origine il Teatro del grottesco. Il nome era felicemente trovato e restò a indicare tutto quanto [produsse] questo movimento o, a dir meglio, guazzabuglio di movimenti disidrati ed eterogenei.
Scarso di risultati artistici, il Teatro del grottesco ha importanza non lieve di sintomo di quella crisi profonda che covava nel seno della società e che al fuoco della guerra mondiale è divampata gigante. Lo spirito da cui esso è animato appar chiaro nella invenzione di cui si serve con particolare predilezione: quella del fu Mattia Pascal, del finto morto, del vivo che passa per morto e che ritorna tra i vivi a vedere come si sono acconciati a vivere nell’idea della sua morte. Egli ha cessato di prendere parte al gioco, o, per lo meno, a quel determinato gioco, della vita, lascia giocare gli altri, e assiste da spettatore in apparenza estraneo e indifferente, e magari sorridente, alla partita. Può così vedere il rovescio della tappezzeria. Cadute le illusioni che nei giocatori accende la loro volontà di vivere e di vincere, la vita gli appare nella sua nudità: formicolio immondo d’interessi di passioni di egoismi bestiali, che si nascondono per meglio soddisfarsi. Cadono le maschere della notte di carnevale, i volti appaiono nella luce livida dell’alba torvi e sinistri. La maschera e il volto: il titolo del primo e più interessante dei grotteschi è altamente significativo.
Tutto è vuoto pensano i «grotteschi», gli ideali morali sono fuochi fatui in un cimitero ove dei cadaveri si disfanno, maschere che ci si mette sul volto per far buona figura nella carnevalata della vita. Gli uomini sono marionette nelle mani del destino. I loro dolori le loro gioie le loro azioni sono sogni di ombre agitantisi in un mondo di tenebre e di mistero, percorso da forze cieche e irrazionali. La vita è una potenza sinistra e crudele, che non edifica se non per abbattere, non costruisce se non per distruggere, mareggiare incomposto senza principio nè fine. A colui che ha scoperto il rovescio della tappezzeria non rimane più che o da morto per burla diventare morto sul serio o rientrare nella vita e sedersi al tavolo da gioco, nascondendo sotto la maschera del gentiluomo la grinta del baro.
Teatro, nel fondo, antisociale e anarchico: l’egoismo individuale vi riprende la sua libertà, vi si corona di tutti i diritti, vi annuncia chiara la sua intenzione di volgere a suo profitto il meccanismo delle menzogne convenzionali. Immoralismo: non ingenuo, non spontaneo, non naturale, ma frutto di proposito e di volontà, immoralismo che si teorizza e si assegna dei programmi.
Il sorriso cinico dell’immoralista dissimula male la malinconia del romantico deluso. È più che probabile che, rimessosi a giuocare, l’immoralista per proposito si farà portar via il portafogli da qualche immoralista per natura, che tanto è immorale che non ha coscienza di esserlo e che si stupirebbe molto se uno glielo dicesse sul viso. È da questa amarezza interiore che si sprigionerà forse un giorno la scintilla di una fede nuova, di una nuova ragione di vivere. Oggi come oggi, il Teatro del grottesco sembra fermo in un atteggiamento puramente negativo. Sulla vita esso ha fatto il buio. Ma in questo buio non sentiamo la presenza di un vivente mistero, bensì solo il bramito della più cieca e ferina volontà di vivere che cerca soddisfazione. Teatro nettamente irreligioso.
Areligioso, invece, è il teatro di uno scrittore che in questi ultimi tempi è andato affermando con vigore crescente la sua personalità, e che con Nostra Dea si è messo in linea fra i nostri più arditi commediografi: Massimo Bontempelli. Nostra Dea è un nuovo esempio di quello che è il procedimento solito dell’arte bontempelliana: procedimento pel quale, fissato un punto di partenza assurdo, folle, idiota, con industre pazienza di ragno Bontempelli ne cava un mondo in ogni suo punto retto da una logica interiore possente e profonda, che ne fa un’architettura cristallinamente translucida e precisa e pure internamente vuota, inconsistente, aerea, che un colpo di spillo basta a dissipare in nulla. E meno lo scrittore prende sul serio il suo mondo, più rigida è la logica con cui si applica a costruirlo nei minimi particolari. E non potrebbe meglio provare il suo disprezzo per la ragione, la logica e i valori intellettuali che applicandoli a costruire e a tener su un mondo totalmente frivolo, inconsistente e vacuo. Di esso regina è Nostra Dea, la donna: la donna che muta anima a seconda del vestito che indossa. Essa non può mai dire di sè io perchè non è io, non è persona, non è individualità, ma tante quanti sono i vestiti che ha in guardaroba o che le sue finanze le permettono di ordinarsi dalla sarta. Una, nessuna, centomila anche lei. Pirandellismo. Ma mentre per Pirandello l’individuo si dissolve in spirito, cioè nelle infinite costruzioni che di lui si fanno gli altri ed egli stesso si fa di sè, per Bontempelli l’individuo si dissolve in materia, nell’ambiente esterno, nella veste che di volta in volta il capriccio degli altri gli butta addosso. E mentre l’inconsistenza dell’individuo per Pirandello è causa di profondo tormento e d’infinita desolazione, per Bontempelli è oggetto di fredda, ironica, distaccata contemplazione e occasione a mille funambolesche fumisterie. In questo mondo privo d’intima serietà, in cui l’individuo è amorfo e plastico come cera di cui la forma muta a capriccio di chi la maneggia, non c’è posto per la cosa più seria del mondo, per la religione, per Dio.
Teatro nettamente antireligioso è, invece, quello di altri scrittori connessi per intima affinità ideale con questi di cui abbiamo parlato: i Futuristi. Il teatro dei Futuristi (dei quali la personalità più ricca e interessante è quella del fondatore della scuola. F. T. Marinetti) è lo sforzo che lo spirito fa per sfracellare ogni preconcetto ordinamento e schema scenico e adeguarsi alla vita sentita come flusso vitale perpetuamente rinnovantesi, come durata bergsoniana, come successione di qualità sempre nuove, che si svolge al di là di ogni logica combinazione. Arte assolutamente sensuale, ma di un sensualismo attivistico e dinamico, per cui lo spirito non si perde nella sensazione, non è sensazione, ma l’ha, ne gode, la padroneggia e non ne è padroneggiato. La sensazione è l’unico contenuto di questo spirito, ma lo spirito non vi soggiace, vi si ritrova e vi si riprende. È questa la ragione per la quale, malgrado le oscenità enormi, i romanzi di Marinetti non sono depravanti ma sani: di una sanità tutta animale e ferina, se si vuole, ma pur sempre sanità. La vita egli la sente come aspro e crudele cimento, dove la gioia è conquistata a forza, pausa di conforto tra due battaglie. Sensuale, sì, ma ogni concessione a mistici e lattei languori è nettamente rifiutata. Al centro dell’Universo marinettiano non c’è che l’Uomo, ultima ondata dell’universa Natura, punta estrema dell’evoluzione creatrice. Nel mondo marinettiano Dio non ha parte. Marinetti è l’artista più laico che abbia oggi l’Italia. E ciò spiega la colorazione pessimistica che da un pezzo in qua va assumendo la sua arte. La sua ultima opera di teatro, I Prigionieri, è tutta piena del senso dell’impossibile libertà umana, distrutta dalle prigioni in cui la vita chiude gli uomini e nelle quali il bollore delle più atroci e violenti passioni insoddisfatte si abbatte nella noia di un’esistenza sempre uguale, nella esasperante monotonia dei giorni e delle ore. Ritirandosi, Dio lascia un vuoto che, gonfiandosi sino a scoppiare, la esasperata attività umana tenta invano di riempire. Unica consolazione: il lavacro nel lago della Bontà cui si accede dopo lungo cammino nell’Oasi dell’Arte (cfr. il romanzo Gl’indomabili). Ma è lavacro di sogno in un mondo di illusioni: miraggio che appare per un attimo nell’inferno solare della vita, e subito dilegua in nulla.

