
Adriano Tilgher: Il teatro di F.T. Marinetti (1925)
Il teatro di F. T. Marinetti:
A proposito della prima de “I Prigionieri”
(il 23 maggio al teatro di Villa Ferrari).
Adriano Tilgher
La Rassegna Italiana, [giugno] 1925 pp. 378-390.
Quando si farà la storia del teatro contemporaneo italiano e delle sue rivoluzioni, qualche rigo bisognerà pur consacrare ai tentativi di teatro sintetico di F. T. Marinetti e compagni, che hanno avuto — e come! — la loro importanza e il loro significato. D’accordo che, artisticamente, non siano, almeno finora, del tutto riusciti, ma, intanto, hanno operato come efficace fermento dissolutivo di un mondo sopravvissuto a sè stesso e privo di ogni ragion di vivere. Strampalerie, bizzarrie, fumisterie: d’accordo, anche qui, ma, intanto, con quelle strampalerie si riaffermava contro il degenerato teatro veristico, quale l’avevano ridotto Marco Praga e compagnia bella, l’esigenza che il teatro fosse qualcosa di più e di meglio che la fotografica riproduzione e continuazione della comune e banale vita vissuta; con quelle bizzarrie si opponeva al vecchio dramma psicologico alla francese matematico sviluppo di dati contenuti in premesse inizialmente poste e che tutti avevano capito fin dal principio che se ne sarebbero svolti, l’esigenza che il teatro fosse qualcosa di più e di meglio che la paziente e gelida analisi della vita. Non arte effettuale, pia esigenza di arte nuova: l’importanza e il significato del teatro sintetico son tutti qui. E come presa in giro e parodia del teatro verista e psicologico che si faceva prima della guerra, bisogna ben riconoscere che alcuni dei suoi esperimenti sono riusciti e hanno toccato il segno.
Per guanto riguarda più in particolare F. T. Marinetti, la sua concezione del teatro è il logico prolungamento della sua concezione dell’arte, riflesso teorico del suo temperamento artistico. Marinetti è parolibero a teatro come nella lirica. Come nella lirica e nel romanzo, il paroliberismo è lo sforzo che fa lo spirito per sfracellare ogni preconcepito ordinamento grammaticale sintattico metrico e per adeguarsi all’onda fluente, allo slancio vitale della Vita immediata, sentita come successione di qualità sempre nuove, come gioco e intreccio e urto ed equilibrio di energie in continuo movimento, come tumultuare e turbinare e gorgogliare di violente sensazioni infinitamente molteplici tra le quali si stabiliscono per un attimo le più imprevedute relazioni, così il teatro sintetico è lo sforzo che fa lo spirito per sfracellare ogni preconcepito ordinamento e schema scenico e adeguarsi alla Vita, sentita anche qui come flusso vitale perpetuamente rinnovantesi e che si svolge al dilà di ogni logica concatenazione. Alla combinazione dell’intreccio o trama o azione succede la stilizzazione della vita in gesti culminanti, definitivi, essenziali. Ai laboriosi sviluppi psicologici, l’atmosfera in cui cova e finisce poi per scoppiare in un grido o in un gesto elementare il dramma. La soppressione di ogni logica scolastica permetterà il passaggio rapido dal piano della realtà comune al piano della fantasia, l’intersezione e l’interferenza dei due piani, la reintroduzione del simbolo (inteso come realtà sensuale, fisica, che ne richiama un’altra o vi si sostituisce), tutto il gioco insomma delle simultaneità temporali e spaziali variate all’infinito, unico mezzo per dare allo spettatore la sensazione fisica e vissuta dell’infinita complessità della Vita. Il personaggio cesserà di essere quel tale e tal signore, così e così fatto, definito una volta per sempre e tutto in una volta: incarnazione della mutevole Vita, diventerà cangiante e molteplice come questa, tanti personaggi e uno solo: la Vita, concepita come alogico flusso di qualità in eterno divenire. Perciò, la lista dei personaggi si allargherà fino a comprendere signori ignoti all’antica drammaturgia: animali, vegetali, minerali, cose inanimate naturali o artificiali, onde anch’esse della Vita infinita, che in certi momenti e condizioni palpitano di un’anima oscura e misteriosa, acquistano significato, entrano a far parte del dramma. Parole, gesti, atti, svolgendosi sopra un piano diverso da quello comune e banale, possono essere strani, inusitati quanto si vuole, purché siano carichi di significato concentrato ed esplosivo. E si ricercherà sempre la sorpresa, la sorpresa a ogni costo, perchè la sorpresa — pensa Marinetti — spezzando la crosta banale e comunemente logica della Vita ci dà il senso della Vita perennemente vergine e nuova. .
In questa cornice, in questa forma Marinetti colerà il contenuto consueto della sua arte. Arte assolutamente e totalmente sensuale, ma di un sensualismo attivistico e dinamico, per cui lo spirito non si perde nella sensazione, non è sensazione, ma l’ha, ne gode, la padroneggia e non ne è padroneggiato. La sensazione è l’unico contenuto di questo spirito, ma lo spirito non vi soggiace, vi si ritrova e vi si riprende. È questa, tra parentesi, la ragione per la quale, malgrado le incredibili oscenità, i romanzi di Marinetti non sono depravati, ma, in fondo, sani: di una sanità tutta animale e ferina, se si vuole, ma pur sempre sanità.
La vita egli la sente come aspro e crudele cimento, dove la gioia è conquistata a forza, pausa di conforto tra due battaglie. C’è un curioso accoppiamento, in quest’uomo, di sensualismo e razionalismo: sensuale, sì, ma ogni concessione a languori mistici e religiosi è da lui nettamente rifiutata. Al centro dell’universo marinettiano non c’è che l’Uomo, ultima e suprema onda della universa Natura. Nel mondo marinettiano, Dio non ha parte. Marinetti è l’artista più positivista e laico che abbia oggi l’Italia. Nel Tamburo di fuoco il filo del dramma non è che pretesto a uno sfoggio lussuoso magnifico sontuoso d’immagini multicolore e multisone, ricche violente vibranti colte a volo e fissate, non passivamente subite ma riempite di una vibrazione energica che le prolunga e le sorpassa ne fa un momento non di passività docilmente accettata, ma di vita intensa dello spirito. Nei Prigionieri è il senso nostalgico della impossibile libertà umana negata e distrutta dalle prigioni in cui la Vita si compiace di chiudere tutti gli esseri suoi, è l’erotismo insaziato e la noia di un’esistenza sempre uguale che tormentano i prigionieri, è l’atroce lezzo della vita promiscua, il balenare della pazzia, l’incubo della Morte che passa.
Un teatro simile non può fare a meno della collaborazione sapiente e paziente dello scenografo e del metteur en scène, che bagnando il dramma in giochi dì luce e di colori, lo rituffino nella universa Natura di cui esso è momento effimero e fuggitivo, e con scene sintetiche ed essenziali facciano risaltare che siamo qui di fronte alla Vita concepita non come lento sinuoso molle sviluppo ma come successione di figurazioni successive di un’energia in perenne movimento.
Sarà interessante tener dietro agli sviluppi di quest’arte, che in più d’un quadro dei Prigionieri ha raggiunto la sua realizzazione.

